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Istituto

Le prime notizie sul nostro Istituto risalgono al 1927, quando aveva sede in Vico Brancaccio con la denominazione di “Real Scuola Commerciale di Napoli”.

Successivamente fu chiamato “Scuola Tecnica Commerciale “Sabatino Minucci”. Nel 1937 la Scuola Tecnica Commerciale “S. Minucci” si trasferì nell’attuale sede di via Trinità delle Monache, i cui locali erano stati costruiti intorno al 1927, probabilmente come dépendance dell’Ospedale Militare, ed appartenevano al Demanio che li aveva ceduti all’Ospedale Militare.

Dopo numerosissime richieste, vennero adibiti a locali scolastici con una permuta tra l’edificio di Vico Brancaccio e quello di Via Trinità delle Monache.

Nel 1949 la Scuola Tecnica Commerciale “S. Minucci” si trasformò in “IV Istituto Tecnico Commerciale Mercantile”; poi, nel dicembre 1953, venne deliberata l’intitolazione dell’istituto all’economista napoletano del ‘600 Antonio Serra; la denominazione fu assunta ufficialmente nell’anno scolastico 1955/56.

Dall’anno scolastico 2006/2007 la specificazione dell’Istituto è cambiata da “Istituto Tecnico Commerciale Statale ” in “Istituto Statale di Istruzione Secondaria” (I.S.I.S.).

Antonio Serra tra storia ed economia

La figura di Antonio Serra è circondata da un alone di mistero. Egli nacque a Cosenza nella seconda metà del XVI secolo, divenne forse dottore in teologia e legge, ma si rivolse senz’altro agli studi di economia approfondendoli e rinnovandone i concetti basilari.

Non si sa quando sia giunto a Napoli, la città che nel ‘600, sottoposta al regime vicereale spagnolo, era sovraffollata e contraddittoria, luogo della più terribile miseria contrapposta allo sfarzo più incredibile, la città della rivolta di Masaniello e della tragica epidemia di peste, ma anche la città che vedeva l’opera di Caravaggio, di De Ribera e degli altri splendidi artisti rappresentanti del Naturalismo.

Antonio Serra si pose il problema dei mali che affliggevano il regno: desideroso di migliorare le condizioni di vita del popolo si avvicinò al frate domenicano suo conterraneo Tommaso Campanella, all’epoca trentenne, che stava organizzando una congiura, mirante a liberare la Calabria dal dominio del re di Spagna e dei suoi ministri.

La congiura fu scoperta e Campanella fu condannato al carcere a vita. Il filosofo, però, non solo sostenne eroicamente le torture e il lungo carcere, ma durante la prigionia scrisse molte opere, tra cui la famosissima “Città del sole”, un trattato che si proponeva di descrivere una forma perfetta di repubblica, nella quale «debbasi insegnare la storia col rappresentare dipinti i principali fatti sulle pareti dei licei». La sua dottrina politica fu in seguito paragonata a quella di Machiavelli e di Bacone.

Dopo 27 anni di carcere, il 15 maggio del 1626, per intercessione del papa Urbano VIII, il filosofo fu liberato. Anche Antonio Serra, intorno al 1613, subì la sorte del Campanella: fu, infatti, condannato al carcere duro della Vicaria, il cui edificio, oggi, è il Tribunale Civile, e fu più volte torturato (infondata invece la tesi secondo la quale il Serra sarebbe stato imprigionato per reati di “falsità in moneta”).

Molto probabilmente proprio in una cella della Vicaria, abbandonato da tutti, il Serra scrisse la sua unica e lungimirante opera: “Breve trattato delle cause che possono far abbondare li regni d’oro e d’argento dove non sono miniere”. Nella dedica al Viceré spagnolo, conte di Lemos, scritta dal carcere, il Serra non fece alcun cenno alla sua situazione, mostrandosi anzi commosso di fronte alle calamità che affliggevano i suoi concittadini, fino addirittura a lodare gli sforzi del Viceré per alleviarne le pene.

In questa opera l’autore analizzò quelle che riteneva le vere cause della scarsezza della moneta a Napoli, trattando i fattori che ne avrebbero reso possibile, invece, l’abbondanza. Tra questi fattori vi erano quelli naturali, come le “miniere” (fonti copiose di ricchezza) e quelli accidentali (commercio internazionale, ordine politico, buone leggi, posizione geografica, manifatture, traffico marittimo). Egli sosteneva che le vere sorgenti della ricchezza nazionale non sono solo nelle “miniere”, ovvero nelle materie prime, ma anche nelle arti utili e necessarie, nella libertà del commercio e degli scambi, nell’attività e “industria” del popolo, nella saggia amministrazione di governo: in altre parole, egli insisteva sui fattori che riteneva superiori agli altri: l’ ordine politico e le buone leggi.

Il Serra si schierava, inoltre, con i “Bulloisti” (economisti che avevano adottato il nome inglese di un metallo prezioso in lingotti, il “bullion”), con i quali riteneva, dando anche qui prova di lungimiranza, che la perdita del valore aureo del denaro era dovuto all’eccesso di moneta circolante.

Il “Trattato”, che illustra ancora numerosi argomenti, rivelò le doti intellettuali del Serra, la sua conoscenza di filosofia e di scienza politica, ma non gli fece ottenere quella clemenza in cui egli sperava. Più di un secolo dopo, in età illuministica, uno dei più fervidi e vivaci ingegni del tempo, l’economista Ferdinando Galiani (1728-1787), apprezzò fortemente lo scritto del Serra e lo ritenne opera quasi unica al mondo. Purtroppo, nonostante questo alto riconoscimento e anche quello di altri economisti e pensatori successivi (tra cui il Croce) l’opera acuta e precorritrice del Serra non ha mai ricevuto il riconoscimento meritato.